AppSCOLTAMI: tecnologia al servizio dell’empatia medico-paziente

a cura di Stefano Boccoli

Mentre a livello sanitario la collaborazione passa da buoni percorsi organizzativi

La malattia cronica renale si accompagna spesso a difficili vissuti emotivi e a conseguenti fatiche nello svolgimento della propria vita quotidiana – anche sul piano relazionale – che possono aggravare ulteriormente il disagio della persona. A cambiare c’è la percezione di sé, le persone coinvolte mutano le proprie abitudini e i rapporti interpersonali; la quotidianità è scandita da nuovi ritmi; capita che si arrivi all’abbandono del lavoro. Rassegnazione, incertezza, sfiducia, senso di costrizione dato dalla condizione di salute compromessa influiscono – spesso in modo importante – sulla qualità della vita del paziente ripercuotendosi anche sulle sue figure di riferimento, ossia i caregiver. I pazienti, frequentemente, hanno vissuti di solitudine, incertezza che li porta a immaginare di non riuscire a farcela a convivere con questa malattia. 

Lo studio

Un recente studio condotto da ricercatori dell’EngageMinds HUB, centro di ricerca in Psicologia dei Consumi alimentari e della Salute dell’Università Cattolica, in collaborazione con ANED (Associazione nazionale emodializzati Onlus) e sostenuta dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia,  ha messo a fuoco diversi aspetti legati a queste problematiche, facendo emergere dati interessanti sotto molti punti di vista.

«In una prima fase del lavoro – ci spiega la professoressa Guendalina Graffigna, referente scientifico dello studio –  abbiamo compiuto un’esplorazione sistematica della letteratura scientifica per identificare gli interventi più efficaci per promuovere il benessere psicologico nel paziente con nefropatia, e ciò che si osserva è come molti progetti attuati abbiano avuto efficacia sia per quanto riguarda la diminuzione dei livelli di ansia e depressione, sia per quanto riguarda il miglioramento della qualità della vita».

 

L’analisi quali-quantitativa

Lo studio è andato più in profondità, sia da un punto di vista qualitativo attraverso la raccolta di testimonianze di caregiver e di operatori sanitari (infermieri, nefrologi, psicologi), sia da un punto di vista quantitativo per mezzo di un sondaggio rivolto ai pazienti, coinvolgendo un totale di 372 persone nelle due fasi

«L’indagine – sottolinea la dottoressa Serena Barello, che ha coordinato le attività di ricerca – mostra un sostanziale allineamento fra i target intervistati per quanto riguarda la rappresentazione dei bisogni psicologici Dei pazienti in termini di ascolto e di poter avere uno spazio di elaborazione delle informazioni fornite dal medico. Ma emerge anche la necessità di poter esprimere quelle emozioni percepite come negative (rabbia, senso di impotenza) che non riescono a trovare uno spazio all’interno del nucleo familiare».

Il quadro non è confortante. Più di un paziente su tre del campione intervistato non si ritiene soddisfatto della propria qualità di vita e più della metà riporta una moderata sintomatologia depressiva.

Inoltre, solo il 20% del campione riporta bassi livelli di “engagement”, ovvero di coinvolgimento attivo nel proprio percorso di cura, e costoro denunciano una percezione della propria qualità di vita peggiore rispetto agli altri pazienti.

 

Il ruolo dello psicologo

Dall’indagine emerge che più della metà del campione di pazienti con nefropatia non ha mai pensato di rivolgersi a uno psicologo. Tuttavia, il 30% ritiene utile la possibilità di affidarsi a un professionista della psicologo per esprimere e gestire le proprie emozioni. Il problema è dunque complesso, ma dallo studio risulta abbastanza chiaramente come il quadro dei bisogni espressi dai pazienti sembri trovare difficoltà a configurarsi come vera e propria “domanda” di aiuto psicologico. Come dire: il bisogno c’è ma va canalizzato verso forme di esperienza concreta.

Perché per i pazienti e i loro caregiver, al di là delle dichiarazioni di apertura all’aiuto dello psicologo, emergono resistenze sia di natura psicologica che culturale. D’altra parte, per gli operatori sanitari la disponibilità alla partnership con lo psicologo nella gestione del paziente nefrologico appare consistente, ma all’atto pratico ci sono ostacoli con riferimento alla scarsa configurazione organizzativa delle attività dello psicologo in ambito nefrologico; una debolezza dovuta anche alle limitazioni di ordine economico oggi presenti nel sistema sanitario, ma anche a uno scarso sviluppo e messa a terra di buone pratiche all’interno delle stesse organizzazioni sanitarie.

 

Come migliorare la situazione?

«I dati della ricerca mostrano chiaramente il peso della malattia e della terapia sulla qualità di vita delle persone che soffrono di patologia renale. Il sostegno psicologico nelle diverse fasi di queste malattie, dalla pre-dialisi, alla dialisi, al trapianto al post trapianto è molto importante» riferisce Vincenzo Irace Segretario regionale dell’Associazione nazionale emodializzati, dialisi e trapianto.

Nel campo delle nefropatie, grazie alla ricerca, appare chiaro come sia necessario sostenere il passaggio dall’esperienza del bisogno a una buona risposta al bisogno. «Un lavoro da focalizzare sul piano dell’elaborazione di percorsi organizzativi sul fronte del sistema sanitario; mentre nei confronti dei pazienti e dei familiari è necessario giungere alla costruzione di una domanda di aiuto psicologico, ma soprattutto è importante offrire occasioni di fare esperienza della figura dello psicologo per risolvere o contenere le esitazioni di ordine psicologico, culturale e organizzativo» evidenzia la dottoressa Barbara Bertani, referente del Progetto per l’Ordine degli Psicologi della Lombardia.

Si tratta di spunti interessanti per orientare la professionalizzazione di questa figura nell’ambito specifico del sostegno alle patologie renali. Un risultato che favorirà il processo in atto di sensibilizzazione e di riconoscimento sociale di questo tipo di bisogno, anche per sollecitare un impegno da parte delle istituzioni.

 

 

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