Nel nome del farmaco: ascese e cadute nella mente del paziente
Health
Ci sono marchi anche datati rimasti nell’immaginario collettivo. Altri, magari efficaci, restano sconosciuti perché generano meno “affettività” nei consumatori. Cosa determina la fortuna commerciale di un prodotto al di là del suo valore terapeutico? Parlano gli esperti. Dal numero 188 del magazine
Vaxzevria, Comirnaty. Per gli amici: “i vaccini di AstraZeneca e Pfizer”. Ormai sono sulla bocca di tutti e anche sui social i nomi delle aziende farmaceutiche figurano regolarmente tra i topic trend. Fino a ora, però, non era scontato che i consumatori identificassero un prodotto farmaceutico con chi lo ricerca, sviluppa, sforna e distribuisce. Con il Covid-19 è arrivata però anche una nuova dimestichezza, non necessariamente favorevole alle industrie: parlando di AstraZeneca, infatti, considerato il putiferio comunicazionale su forniture e eventi avversi, l’azienda ha dovuto tentare un’operazione di marketing per distinguere il proprio brand da quello del prodotto, ma il tentativo finora non ha sortito l’effetto sperato e i cittadini di tutto il mondo nemmeno se ne sono accorti. Tale episodio mette comunque in evidenza l’importanza del naming all’interno delle logiche di un’impresa farmaceutica: se il discorso vale soprattutto per gli Otc, anche per i farmaci a prescrizione e i vaccini esistono modelli di marketing e di psicologia dei consumi estremamente sofisticati di cui tenere conto.
Otc e Sop
I farmaci da banco e i Sop hanno come destinatario diretto il consumatore senza l’intermediazione del medico. Sul loro successo commerciale incidono diversi fattori che vanno dalla pubblicità (giornali, televisione, radio, internet), al suggerimento del farmacista, allo sviluppo di un nome che attragga chi entra in farmacia. “Il nome commerciale di un farmaco incide molto, perché crea aspettative nel consumatore soprattutto in termini di efficacia e sicurezza”, spiega ad AboutPharma and Medical Devices Guendalina Graffigna, Direttore di EngageMinds HUB – Consumer & Health Research Center, Dipartimento di Psicologia e Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari, Ambientali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “La scelta semantica e linguistica del nome di un farmaco sul piano psicologico attiva l’immaginario e l’anticipazione di ciò che sarà la performance del prodotto, quindi orientando atteggiamenti e motivazioni del consumatore in merito alla scelta. Su tutti penso alla Tachipirina la cui derivazione dal greco rimanda a efficacia e velocità (tachys cioè “rapido, veloce” e pyr, “fuoco, temperatura elevata” a indicarne l’efficacia antipiretica, n.d.r.). Ci sono poi altri farmaci con nomi che invece rassicurano il consumatore: suoni meno forti e più accoglienti. Secondo alcuni studi di psicologia dei consumi, il nome del prodotto può cambiare a livello implicito le aspettative e influenzare il pregiudizio a un livello totalmente inconsapevole”. Anche Giovanni Gabrielli partner di Com.unico (azienda di comunicazione e web marketing) esperto di marketing emozionale per il farmaceutico ritiene che “un nome non efficace spesso possa essere alla base di un insuccesso commerciale. La scelta del nome – continua – è importante per facilitare il processo di memorizzazione, attivata nel punto vendita con il ricordo e il riconoscimento. Questo è fondamentale per il successo di un prodotto, perché se memorizzo un brand, ma poi in farmacia non lo ricordo o lo riconosco, la memorizzazione è inutile. Pertanto diventa fondamentale la comunicazione di brand in farmacia, con cartelli vetrina, display box e azioni che fanno scattare l’attivazione del processo di memorizzazione”.
Esempi di successo
Gabrielli elenca alcuni farmaci che a suo dire sono esemplificano bene il binomio brand-affettività. “Tachipirina, Rinazina, Enterogermina, Voltaren Emulgel, Oki task, Fluibron, Vicksinex, Maalox, Aspirina, Moment: sono prodotti che tutti hanno nell’armadietto dei medicinali. I nomi sono spesso di fantasia senza una specifica correlazione con i problemi che risolvono e alcuni sono anche non facili da memorizzare. Il loro successo è stato determinato dalla capacità delle aziende di costruire campagne in grado di creare un link emozionale tra il brand e il potenziale consumatore, realizzando un legame che supera l’aspetto di risoluzione della sintomatologia, umanizzando i prodotti per renderli parte della nostra quotidianità. Il percorso che lo consente parte dalla costruzione di storie emozionali in cui il nome del brand è il protagonista sviluppando attenzione, curiosità e desiderio di provare il prodotto a cui segue l’abitudine all’acquisto che genera fidelizzazione”.
Razionalità e irrazionalità
“Secondo alcuni studi di psicologia dei consumi, il nome del prodotto può cambiare a livello implicito le aspettative e influenzare il pregiudizio a un livello totalmente inconsapevole”, spiega ancora Guendalina Graffigna che si concentra sul moto istintivo che un brand può scatenare in un consumatore. È lì, secondo l’esperta, che la strategia commerciale di un’agenzia di comunicazione punta per spronare all’acquisto attraverso elementi che a livello inconscio portino a una scelta ben precisa. Sul tema si è soffermato anche Gabrielli: “Troppe sono le aziende che agiscono unicamente sul lato razionale della proposta entrando in una guerra dei prezzi o proponendo solo nuovi vantaggi. Se lavoriamo solo sugli elementi relativi a efficacia, sicurezza e prezzo portiamo i brand ad assomigliarsi tutti quanti e ciò rappresenta il primo rischio dell’insuccesso. Riuscire ad umanizzare il brand, renderlo un elemento che vive nella quotidianità di ciascuno di noi, che rappresenta una parte del nostro vivere e che ci rassicura, costituisce il vero elemento distintivo di successo”.
Volgarizzazione
Ci sono poi farmaci Otc che diventano immortali. Non solo in termini di vendite ma anche e soprattutto nella memoria delle persone. Un esempio su tutti è l’Aspirina che ha goduto e gode di una tale popolarità da essere diventata essa stessa sinonimo di antidolorifico, soppiantando nella percezione collettiva qualunque altro farmaco con la stessa funzione, ma con nome e principio attivo differente (si chiama volgarizzazione). “Ci sono esempi celebri anche e soprattutto in altri campi merceologici. Penso a Scottex, un marchio che fa parte del lessico comune per indicare i panni e la carta per la casa o Nutella usato impropriamente per indicare la categoria delle creme al cioccolato (quest’ultima è addirittura inserita nel dizionario della lingua italiana Devoto-Oli come sinonimo di crema spalmabile, n.d.r.). Pochissimi farmaci sono riusciti a creare una memorizzazione così forte del suo nome, tale da orientare scelte e comportamenti del consumatore”, spiega Graffigna. L’esempio rende bene l’idea: quasi nessuno fa riferimento alla carta assorbente da cucina con altri termini se non con Scottex e istintivamente, quando vediamo una crema al cacao spalmabile, la mente immagina il barattolo della Nutella. Eppure si tratta di due marchi registrati che nel corso del tempo sono diventati l’emblema di una categoria di prodotti ben definiti. Stesso destino per l’Aspirina che nel corso dei decenni è rimasta stabile nella memoria delle persone.
I generici
Sul tema è bene fare delle puntualizzazioni in quanto l’area degli equivalenti è spesso considerata una zona grigia da parte dei consumatori che non sempre sono formati al riconoscimento del valore terapeutico di un generico rispetto all’originale. “Rispetto al generico, il consumatore è spesso confuso in quanto, in linea di massima, ha una scarsa conoscenza delle marche delle aziende farmaceutiche. È atipico, per esempio, che oggi tutti parlino di AstraZeneca, Pfizer o Johnson&Johnson. Una persona che non lavora nel marketing farmaceutico o nell’ambiente clinico difficilmente conosceva prima questi nomi. Se ci spostiamo dal campo del vaccino anti-Covid19, solitamente il consumatore non ha idea dell’impresa che c’è dietro un determinato farmaco”, spiega ancora la docente dell’Università Cattolica. Dello stesso avviso Gabrielli: “Frequentemente nel processo di adozione prescrittiva incide molto l’azienda a cui il generico appartiene e per il paziente l’affettività spesso viene generata non dal nome, ma bensì dai colori del pack, dal logo, dal nome dell’azienda, dalle dimensioni della scatola, dalla forma e dal colore della compressa. Personalmente – aggiunge l’esperto – sono convinto che bisognerebbe sempre dare un nome al prodotto equivalente perché ciò permetterebbe di sviluppare una comunicazione umanizzante e quindi di generare affettività e reale fidelizzazione al brand”.
Il processo di naming
Ma come si raggiunge l’obiettivo? Graffigna e Gabrielli spiegano quali sono i passaggi che in buona parte sono standardizzati, ma che in molti casi dipendono dalla strategia che l’azienda farmaceutica o l’agenzia di comunicazione coinvolta intende mettere in campo. “Basandoci sulla teoria, a fronte di uno sviluppo di un farmaco, il marketing definisce il nome sulla base del meccanismo di azione, del profilo di efficacia e di sicurezza attribuito dai dati scientifici, cercando di evidenziarne gli aspetti migliori. Ma non si tratta solo di lavoro ideativo degli esperti della comunicazione: spesso sono condotte ricerche sulla psicologia dei consumatori indagare quali nomi possano maggiormente impattare le percezioni di un individuo in relazione a un certo tipo di farmaco. Questo è il processo teorico, perché non sempre si portano avanti indagini di mercato approfondite prima di prendere decisioni in questo ambito”, spiega Graffigna. “A volte è il team scientifico che decide. Bisogna, però, sempre considerare che nel branding è nascosto il valore aggiunto del farmaco e in questa fase ci sono almeno tre aspetti da tenere in considerazione. Il naming in quanto tale, il logo e l’immagine della marca”. Ci sono poi regole da seguire. “La scelta del nome di un brand deve seguire regole precise di sviluppo che tengano conto delle limitazioni che Aifa impone specialmente per i farmaci classe A e C. Il processo di naming non è una scienza esatta, ma un percorso che parte dalle caratteristiche del brand per arrivare alla psicologia dell’acquisto e quindi non è sicuramente solo un percorso di creatività”, prosegue Gabrielli. “Il nome dovrebbe anche essere facile da pronunciare e essere il più possibile breve e diverso dagli altri, avere una personalità specifica e avere la capacità di sviluppare affettività. Un nome giusto non è il solo responsabile del successo di un prodotto, ma un nome sbagliato è il principale responsabile dell’insuccesso commerciale di un brand. Esistono percorsi da seguire che facilitano il processo di scelta – chiosa in ultimo Gabrielli – e non possiamo solo affidarci alla creatività, ma non dobbiamo nemmeno seguire regole statiche e definite. Occorre essere creativi, ma non bisogna mai improvvisare, anzi serve essere disciplinati e soprattutto sapere dove esattamente si vuole arrivare. Questo è l’elemento fondamentale del percorso verso il successo”.
I farmaci a prescrizione
L’altra categoria di medicinali da tenere presente è quella dei farmaci a prescrizione che devono prima catturare l’attenzione del medico. Nonostante i mondi Otc ed etico siano diversi ci sono dinamiche che Graffigna ritiene comuni. “Per quanto riguarda i farmaci a prescrizione, le dinamiche sono simili a quelle degli Otc. È il medico che diventa in un certo qual modo consumatore. Le decisioni cliniche si basano ovviamente per larga misura sulle evidenze scientifiche, ma c’è una sorta di ‘piano dell’intuizione o psicologico’ in cui entrano in gioco emozioni, aspettative e magari anche pregiudizi che medico e farmacista hanno sul farmaco, anche veicolate dal suo nome”. Anche Gabrielli concorda. “Se consideriamo che il processo di prescrizione viene attivato dalla memorizzazione del nome del brand nella mente del medico, ci possiamo rendere conto di come un nome rispetto a un altro faccia davvero la differenza. Sempre più spesso il nome viene deciso da casa madre e questo, a parer mio, rappresenta un rischio enorme poiché ogni Paese ha sue tipicità culturali e consuetudini linguistiche e quindi ciò può essere accettato in un Paese potrebbe non esserlo in un altro”.
Anche per i farmaci a prescrizione bisogna operare valutazioni di mercato rispetto agli altri competitori, capire il target di riferimento, fare analisi comparative di nomi già esistenti e rispettare le regole che le agenzie regolatorie hanno dato per evitare che si crei confusione tra un prodotto e un altro. “Da quanto appena detto si intuisce che per un farmaco la libertà di scelta del nome è doverosamente circoscritta e quindi, per ovviare a questa situazione, al momento della scelta, ci si dovrebbe sempre orientare su soluzioni multiple. In sintesi, soprattutto per un farmaco di classe A, si dovrebbero privilegiare nomi che facilitino il processo di memorizzazione del brand nell’interlocutore che è alla base del processo psicologico di adozione e prescrizione”, conclude Gabrielli.
La denominazione internazionale
Per evitare il rischio babele nel processo nominativo dei farmaci, l’Oms dal 1953 ha uniformato la materia all’interno di un codice chiamato Denominazione comune internazionale (Dci o Inns: International non proprietary names). In questo modo si identificano i farmaci attraverso il principio attivo senza per forza basarsi sul nome commerciale scelto dalle aziende farmaceutiche. Il nome comune, ossia quello indicato dalla Dci non può in alcun modo confondersi col nome commerciale coperto da brevetto. Lo spiega la Direttiva europea 2001/83 all’articolo 1: “la denominazione, che può essere un nome di fantasia ovvero una denominazione comune o scientifica corredata di un marchio o del nome del fabbricante; il nome di fantasia non può confondersi con la denominazione comune”. Come hanno scritto a inizio 2021 Marta Serafini, Sarah Cargnin, Alberto Massarotti, Gian Cesare Tron, Tracy Pirali e Armando Genazzani su Medical journal of chemistry (What’s in a name? Drug nomenclature and medicinal chemistry trends using Inn publications) l’Oms si è trovata in qualche modo costretta a uniformare il tutto, in quanto sarebbe stato impensabile per ogni Paese del mondo utilizzare nominativi propri per ogni farmaco in commercio (ci sono circa settemila lingue nel mondo di cui 34 parlate da 45 milioni di persone).
I marchi tendono a semplificare molto anche se tanti prodotti sono venduti con brand diversi sulla base di regole specifiche per ogni singolo mercato. Ma è già qualcosa, anche perché i nomi chimici, seppur univoci, sono difficilissimi da memorizzare dal grande pubblico. Il Cdi, scrivono gli esperti nel loro articolo, “è stato anche un pilastro fondamentale per lo sviluppo del mercato generico dei farmaci brevettati, per cui nella maggior parte dei paesi la Dci sostituisce il marchio e consente quindi di scollegare il produttore dall’effetto terapeutico. La Dci non ha sostituito del tutto le agenzie di denominazione nazionale (ad esempio, negli Stati Uniti, Inghilterra, Giappone e Cina, per citarne alcune, sono ancora attive) ma un’intensa cooperazione tra queste ha portato, con pochissime eccezioni, a nomi identici in tutto il mondo. Si immagini se tutti i farmaci usati fossero nella situazione di paracetamolo, salbutamolo e adrenalina, che negli Stati Uniti sono conosciuti rispettivamente come acetaminofene, albuterolo ed epinefrina”.
Gruppi di lavoro
Il tema è delicato e non deve stupire che la stessa Ema abbia istituito un proprio gruppo di lavoro chiamato “Name review group”. Sostanzialmente gli esperti effettuano la revisione dei nomi dei marchi farmaceutici per valutarne possibili criticità al fine di non creare confusione nella stampa, nella pronuncia o nell’indicazione della composizione. Anche la Fda statunitense ha un suo dipartimento apposito per la valutazione dei nomi. Si chiama Ddmac e sta per Divisione per il marketing, la pubblicità e la comunicazione (Division of drug marketing, advertising and communication) e fa parte del Cder, il Centro per la valutazione e la ricerca sui farmaci. Parallelamente lavora anche la Dmepa (Division of medication error prevention and analysis), anch’essa ramo del Cder. Le mansioni della Dmepa riguardano la valutazione del nome attraverso la consultazione di un database indagato con la procedura Poca (Phonetic and orthographic computer analysis) che sfrutta sofisticati algoritmi per vagliare migliaia di nomi già esistenti per evitare fraintendimenti futuri una volta che il farmaco sarà immesso in commercio.
Marchi forti e deboli
Nel mondo del brand, esistono marchi forti e deboli. Come spiega lo studio legale internazionale Dragotti & Associati sul suo sito: “Sono detti ‘forti’ i segni privi di attinenza concettuale con i relativi prodotti/servizi, dotati di una spiccata attitudine individualizzante e improntati a notevole originalità (es. Jeep, Nike, Rolex). Al contrario i marchi ‘deboli’ sono dotati di significato o caratteristiche che immediatamente richiamano o descrivono i relativi prodotti/servizi, pertanto hanno capacità distintiva ridotta (es. Divani&Divani, Melinda, Mentadent, Estathe, Poltronesofà, Benagol)”. A quest’ultima categoria appartengono anche i marchi farmaceutici (a meno che non abbiano nomi di fantasia) se “riflettono o evocano il principio attivo o gli effetti terapeutici che li caratterizzano”. E viene fatto l’esempio del marchio Ansiolin per prodotti farmaceutici e Dermawand riferito a prodotti per la pelle. Sostanzialmente un marchio debole, rispetto a uno più forte, avrà una tutela brevettuale meno robusta in quanto – appunto – privo di caratteri distintivi. A fronte di questo punto debole, l’azienda produttrice dovrà verosimilmente investire moltissimo in attività promozionali. Infine, sottolinea Dragotti & Associati, ogni impresa deve tenere conto dell’articolo 13 del Codice della Proprietà industriale (Cpi): “Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio; quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.