Come dopo un anno, Covid-19 cambia i paradigmi scientifici e di consumo
In un webinar organizzato dall’EngageMinds Hub, dati e insight di un anno di monitor continuativo sull’impatto psicologico della pandemia • a cura di Stefano Boccoli«Una maggior consapevolezza che la nostra salute è quanto mai parte di un sistema. Un sistema che ci impone un cambio di paradigma, facendo emergere un nuovo approccio che tenga conto della sempre più evidente interconnessione tra salute umana, salute animale e salute dell’ambiente; ovvero ciò che tecnicamente viene chiamato “One health”. Ecco uno degli aspetti – forse tra i pochissimi positivi – che ci sta lasciando un anno di Covid-19, e che sempre più deve e dovrà orientare anche l’attività di ricerca scientifica, a cominciare proprio dal campo epidemiologico». Questa la sottolineatura con la quale la professoressa Guendalina Graffigna, Ordinario di psicologia dei consumi e della salute e direttore dell’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica ha aperto il webinar “Un anno di Covid, impatto psico-sociale, comportamenti e nuove traiettorie per l’engagement dei cittadini”, organizzato dal Centro di ricerca della Cattolica.
«Il collegamento tra il benessere degli animali, il rispetto dell’ambiente e la nostra salute emerge sempre più come fattore centrale, in molti aspetti a cominciare da quello infettivologico – ha fatto eco il professor Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. «D’altro canto – prosegue Pregliasco – gli aspetti di sfiducia nella scienza e nelle istituzioni su cui fa luce la ricerca dell’EngageMinds HUB sono un altro elemento di preoccupazione».
Ma il webinar è stata anche l’occasione per presentare alcuni dei dati e degli insight messi in luce dall’ultima rilevazione condotta proprio dall’EngageMinds HUB, che da febbraio 2020, e coinvolgendo oltre cinquemila persone, sta conducendo un vero e proprio monitor continuativo sull’impatto psicologico di Covid-19 sulla popolazione italiana.
Uno studio che, tra le altre cose, mostra che, nell’attuale situazione di curva epidemica che stenta a diminuire e campagna vaccinale in pieno svolgimento, si fa strada un elemento di ulteriore preoccupazione. Se da un lato la paura del contagio resta alta e gli italiani mostrano consapevolezza della potenziale vulnerabilità all’infezione, dall’altro lato sta calando il senso di auto-efficacia nella prevenzione e la fiducia nelle proprie capacità di evitare situazioni di rischio. Si tratta di quello che tecnicamente in psicologia viene chiamata impotenza appresa, e che spesso è ciò che inficia l’aderenza ai comportamenti corretti e alle misure preventive, e che corrisponde a un abbassamento del coinvolgimento attivo, ovvero l’engagement, dei cittadini.
«Anche in campo alimentare, in questi tempi di Covid-19, siamo purtroppo di fronte a un disengagement da parte di molti cittadini – ha sottolineato Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca del CREA – Alimenti e nutrizione e presidente della Società Italiana di scienze dell’alimentazione. E il coinvolgimento del consumatore è una delle strade principali che abbiamo per mantenere il self-control nei comportamenti alimentari. Mentre in questo periodo – ha proseguito Ghiselli – un po’ per ansia un po’ per noia, soprattutto nei periodi di maggior chiusura, i consumi, e in particolare di comfort food, sono aumentati a discapito di una corretta alimentazione».
«Del resto, il consumatore è molto confuso – ha spiegato il professor Lorenzo Morelli, Ordinario di microbiologia all’Università Cattolica e direttore del Distas – e questo ha avuto ripercussioni sulle filiere alimentari. Filiere che anche nel primo lockdown, quello più rigoroso del marzo e aprile 2020, hanno sofferto un doppio stress. Perché, oltre all’attività molto intensa nel mezzo di forti difficoltà, per un altro verso hanno dovuto far fronte a un repentino cambio nelle abitudini di consumo. Il consumatore, che da anni si stava sempre più rivolgendo a prodotti freschi, naturali, a breve conservazione, si è di colpo rivolto a prodotti preconfezionati e conservabili, e dunque stoccabili, a lungo. Detto questo, dal punto di vista delle tecnologie alimentari – ha proseguito Morelli – il cambiamento di ricettazione e di riformulazione di alcuni alimenti è inevitabile, perché il consumatore comincia a chiederci e ci chiederà cose diverse. Basti pensare all’impatto tra diete e sistema immunitario, dieta ed efficacia dei vaccini».
«Il Monitor continuativo condotto dall’EngageMinds HUB, porta alla ribalta un problema che forse oggi dovrebbe essere meglio focalizzato. Anche alla luce del concetto di sindemia, come quadro di lettura del Covid-19 al di là della pura pandemia». È quanto ha sottolineato il professor Albino C. Bosio, Ordinario di psicologia e presidente del Comitato scientifico dell’EngageMinds HUB. «Il punto rilevante che sottende questa ricerca – ha proseguito il professor Bosio – è che, con il Coronavirus, sono state messe in gioco due storie. Una prima storia è quella medico-biologica, e attiene alla lotta tra il nostro organismo e il virus assalitore. La seconda storia è quella delle nuove e diverse relazioni che la presenza del virus ha indotto tra le persone. Chiamiamo questo piano “sociale”, ma soprattutto sottolineiamo che, pur trattandosi di storie diverse, queste si sono quanto mai intrecciate. Questo monitor – ha concluso il professor Bosio – è importante perché ci fornisce spunti sostanziali per arrivare alla costruzione di una buona comunicazione sociale sul Covid-19».
La pandemia e l’attivazione delle persone
Ma veniamo ora ai dati della ricerca, presentati da Serena Barello e Mariarosaria Savarese, ricercatrici presso l’EngageMinds HUB.
Da un punto di vista psicologico, c’è un parametro che misura come le persone si pongono di fronte ai rischi di salute. Tecnicamente si chiama “Engagement” e valuta il livello di attivazione e coinvolgimento dell’individuo nella prevenzione e promozione della propria salute. L’EngageMinds HUB ha sviluppato uno strumento scientifico validato a livello internazionale per misurare questo fenomeno (la People Health Engagement Scale) che va dallo stato di “black out” (o “zero engagement”) nel quale il soggetto è smarrito e fatica ad agire o si attiva in un modo rischioso e disfunzionale per sé e per il sistema salute, con qualche grado intermedio, allo stato di “equilibrio” che si contraddistingue per la consapevolezza del proprio ruolo nel sistema sanitario e la voglia di essere pro-attivi per contribuire alla propria salute.
In un anno, e precisamente tra marzo 2020 e marzo 2021, la percentuale di italiani “ingaggiata” è crollata dal 26% al 6% e, parallelamente, le persone che si sentono impotenti e incapaci di prevenire rischi di salute sono più che raddoppiate (dal 12% al 29%).
Peraltro, una situazione così preoccupante non si può facilmente imputare a noncuranza o a indifferenza rispetto a Covid-19, perché nel contempo gli italiani che si sentono a forte rischio di contagio sono incrementati dal 30% al 47% della popolazione italiana. Una quota che raggiunge il 59% tra chi si sente in “blackout”. Il problema sta piuttosto nel senso in inefficacia personale, di perdita di senso circa alcune misure preventive e del venir meno di un’alleanza di lavoro con gli attori del sistema nel processo preventivo. Insomma: una sorta di “confusione” comportamentale che – in alcuni casi – porta a essere deleganti le azioni di prevenzione della salute.
«Per molti mesi la sola strategia di contenimento dei contagi è stata quella comportamentale – sottolinea la professoressa Graffigna – a tutti i cittadini sono stati richiesti cambiamenti importanti nel loro modo di vivere e di comportarsi. E dunque il coinvolgimento attivo delle persone nella lotta alla pandemia è da sempre stato visto e appellato come fondamentale. Purtroppo, però vediamo che nel tempo le persone, anziché rafforzarsi in questo ruolo attivo, hanno aumentato il senso di fatalismo e la delega al sistema. Questo attiva una spirale negativa di pessimismo, frustrazione e inefficacia nei comportamenti preventivi».
«A ridosso delle prossime riaperture, comprensibilmente attese e desiderate da molti italiani, questo fattore psicologico potrebbe inficiare la capacità dei cittadini di mantenere alta l’attenzione sulla prevenzione dei contagi. La voglia di “tornare alla normalità” unitamente al senso di inefficacia personale nel fare qualcosa per evitare l’esposizione al rischio di salute e alla fatigue psicologica rischiano di modificare la percezione del rischio delle persone e di far abbassare la guardia» ha concluso dichiarato la professoressa Graffigna.
Fiducia? Perdono scienza e sanità
E una conferma viene proprio dai dati sulla fiducia raccolti ed elaborati dall’EngageMinds HUB. Con diversificazioni significative. Da un lato, la fiducia nelle istituzioni si mantiene sostanzialmente stabile. Mentre a mostrare cali molto significativi sono la fiducia nel sistema sanitario e nella scienza. A marzo 2020, allo scoppio della pandemia, il comportamento talvolta eroico di molti sanitari e l’autorevolezza delle prime analisi degli scienziati aveva portato a picchi di fiducia molto elevati: tra i cittadini, il 61% dichiarava pieno affidamento nel sistema sanitario e il 79% nel sistema della ricerca scientifica. Oggi, dopo dodici mesi, queste percentuali sono scese al 51% e al 65%. Una sfiducia che si accentua tra le donne e tra la fascia più giovane della popolazione. E che sembra colpire duramente chi presenta i livelli più bassi di coinvolgimento attivo nella lotta alla pandemia.
Pandemic Fatigue e solitudine
Che le persone stiano psicologicamente soffrendo lo dicono anche altri dati della recentissima analisi del Centro di ricerca dell’Università Cattolica. Il vissuto d’ansia nella popolazione italiana classificato come “marcato” ed “estremo” è passato dal 19% di marzo 2020 al 27% di marzo 2021. Mentre lo stato depressivo viene oggi avvertito dal 36% del campione: un anno fa questa quota era ferma al 29%. I dati evidenziano come su questi aspetti della vita individuale ci sia una fortissima polarizzazione: ansia e depressione si impennano tra chi si sente in blackout dal punto di vista del coinvolgimento attivo nella propria salute e crollano tra chi si sente in equilibrio.
Ma c’è un altro elemento da sottolineare: ed è il dato della “deprivazione sociale”, cioè della sofferenza per la mancanza di normali relazioni imposta dalle misure anti-Covid-19. Se a settembre scorso, mediamente questo aspetto veniva denunciato dal 45% della popolazione, oggi siamo al 68%; e sono soprattutto le donne e i “senior” (ultrasessantenni) a patirne.
Pessimismo economico e cambiamento degli orientamenti di consumo
Che la sfiducia delle persone tocchi anche e pesantemente gli aspetti economici è nelle cose di questa pandemia. Ma ciò che emerge dalla ricerca dell’EngageMinds HUB è che lo sconforto è molto più riposto nel sistema paese che nella situazione personale o familiare. Se la dinamica di questi due indicatori è simile – picco a maggio e poi discesa e stabilizzazione nei mesi successivi – oggi il 36% degli italiani, con accentuazione tra i giovani, definisce “peggiore” la condizione finanziaria della propria famiglia mentre il 77% si dichiara pessimista sulla situazione economica generale dell’Italia.
“Anche questo è un segnale importante perché indica pessimismo circa la capacità di ripresa economica del Paese e dall’altra parte, come la psicologia dei consumi ci insegna, determina un orientamento più cauto negli investimenti economici delle persone, appunto più insicure per l’andamento economico”. – ha dichiarato la prof. Graffigna
Guardando al futuro
I dati di trend mostrano come la percentuale di persone che riesce a guardare con speranza verso l’uscita dalla crisi sanitaria è diminuita in modo significativo negli ultimi sei mesi: se a settembre il 25% degli Italiani riteneva che il “peggio fosse passato” sul fronte della pandemia, attualmente lo crede solo il 17%. In generale più della metà degli italiani dichiara che in futuro “sarà più centrata sul presente” (54% del campione) e meno incline a progettare il futuro e il 40% degli italiani ritiene che, anche quando la crisi da COVID19 sarà passata il suo modo di consumare sarà molto diverso rispetto a prima. Infine, il 73% degli italiani ritiene che le giovani generazioni siano destinate a vivere peggio della generazione dei loro genitori per via di questa pandemia.